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Il nostro “Manuale di sopravvivenza” a Teatro. Intervista a Stefano Massini e Paolo Jannacci

17 giugno 2021

Tutte le foto sono di Filippo Manzini

Il suo nuovo libro Manuale di sopravvivenza. Messaggi in bottiglia d’inizio millennio (ed. il Mulino) si può leggere tutto d’un fiato oppure si può scegliere di leggere un messaggio al giorno, aprendo il libro a caso…

Massini: In un certo senso Manuale di sopravvivenza si può definire come un “libro da comodino”, e anche per questo abbiamo scelto il sottotitolo Messaggi in bottiglia d’inizio millennio: sono pensieri che, in qualche modo, possono essere utilizzati per decrittare la realtà che ci circonda. Nel 2019 mi hanno domandato di scrivere una mia breve rubrica settimanale per Robinson, il nuovo fascicolo culturale de La Repubblica. Ricordo che mi chiesero: “Come vorresti chiamarla?”. E io non esitai: pensai subito a Manuale di sopravvivenza e ad una rubrica scherzosa e ironica, soprattutto all’inizio l’idea era quella di una scrittura che giocasse con le plurime follie della società moderna. Una sorta di prontuario, capace di dirti come fare a sopravvivere, per esempio, alle follie del web e dei social… Via via, con lo sviluppo di una concezione diversa del tempo per tutti noi, la parola sopravvivenza ha completamente assunto un altro significato: il contesto mondiale improvvisamente viveva questa sorta di cortocircuito inatteso, in cui la sopravvivenza non era più soltanto qualcosa di lontano che riguardava i Paesi in via di sviluppo o i nostri progenitori che avevano vissuto la guerra. Prima di questo biennio caratterizzato dal Covid, esisteva una forma quasi morbosa di andare a cercare la testimonianza del sopravvissuto ad un attentato o a un fatto particolarmente drammatico: guardare negli occhi di chi aveva scampato la morte era qualcosa che colpiva fortemente il pubblico. Oggi ciò diventa improponibile perché il contagio, con le sue conseguenze economiche e sociali, ci ha colpiti globalmente. Si è creato un meccanismo per cui siamo tutti dei sopravvissuti, nessuno escluso. Sopravvissuti e sopravviventi: viviamo affrontando un miliardo di agenti patogeni attorno a noi e che in ogni minuto della nostra esistenza dobbiamo respingere… Questa è un’immagine estremamente forte, perché dà l’idea di quanto la nostra vita sia continuamente una lotta per la sopravvivenza.

Come è nata la vostra complicità?

Jannacci: È stato merito di Stefano, che mi ha chiamato con un anno di preavviso per una possibile collaborazione. Nel giro di pochissimo tempo ci siamo incontrati ed è nata la scintilla umana e creativa che ci ha legato. Il mio è un sentimento di rispetto nei suoi confronti; conosciamo uno il valore dell’altro, questo è il primo mattone del nostro sodalizio, poi c’è tutto il resto: le idee, gli elementi artistici, le frasi condivise, le mattate insieme…

Massini: Paolo è un grande musicista, con cui è molto bello lavorare perché possiede sempre una creatività partecipe. Fin da piccolo, io ho avuto una grandissima difficoltà nel gestire la velocità del mio pensiero, tanto che da bambino balbettavo e in genere si balbetta quando il pensiero è più veloce della capacità di articolazione della parola. Molte volte non mi trovo bene a collaborare con gli altri proprio per questo motivo, quando avverto che la velocità degli altri non è la mia… Ecco, Paolo è una delle poche persone che mi viene dietro e con la quale riusciamo a capirci subito: abbiamo condiviso il palcoscenico, sia con la presentazione di Manuale di sopravvivenza e sia con lo spettacolo Storie, e anche con la trasmissione televisiva Ricomincio da Rai3, tagliando e cambiando continuamente le cose, anche all’ultimo istante. Non c’è stata una volta che io non abbia sentito che lui era comunque con me, entrambi dalla stessa parte. In scena io gioco continuamente tra il registro serio e quello più ironico, in modo che si crei un cortocircuito spiazzante per lo spettatore. Un attimo prima si parla del Covid e di quando stavo male, subito dopo si racconta invece qualcosa di buffo. Allo stesso modo Paolo è capace di accompagnare musicalmente questi miei passaggi, passando con credibilità da pezzi intensi a canzoni più divertenti.

In che modo l’accompagnamento musicale segue le parole sul palcoscenico?

Jannacci: Stefano ha un suo timbro, con una capacità espressiva molto forte che ti permette musicalmente di non essere legato semplicemente alle parole. Se lui interpreta il testo, io capisco comunque quando sta per finire il suo pensiero o ciò che vuole dire. Ovviamente questa è una scuola che io ho cominciato a fare in scena insieme al mio papà, che era anche molto più criptico di Stefano… Mio padre, Enzo Jannacci, aveva bisogno di immediatezza sul palcoscenico e con lui ho seguito la scuola scenica della “lettura del pensiero”: lavorando insieme, alla fine io sapevo esattamente che cosa avrebbe cambiato o sbagliato venti secondi dopo, così io lo coprivo musicalmente. Io insegno musica di insieme al CPM a Milano e ai miei studenti devo far capire che, se ogni strumento è un’isola, diventa importantissimo in un duo o in un’orchestra ascoltarsi l’un l’altro per modificare in tempo reale il proprio modo di suonare rispetto allo spartito. È qualcosa che non si finisce mai di imparare ed è la bellezza del live, parte fondamentale del nostro mestiere.

La ripartenza, come la stiamo vivendo adesso: ve la immaginavate così? E in che modo il teatro, e più in generale la cultura, possono inserirsi in questo discorso?

Massini: Cultura significa avere senso critico: chi legge o va a teatro, chi ascolta la musica o va al cinema, ha sicuramente una mente aperta. È qualcuno che vive meglio, perché possiede più strumenti per affrontare le cose che gli accadono nella vita. Sa distinguere tra l’apparenza e la sostanza, tra i casi e le opportunità… La cultura, soprattutto in una fase così traumatica come il tempo della pandemia, fornisce degli elementi strutturali che sono in grado di aiutarti a superare la complessità del momento. Adesso si sente che c’è molto bisogno di ritornare a teatro, ed è commovente: gli spettatori arrivano indossando sempre la mascherina e mantenendo le distanze, affrontano quindi dei disagi materiali per vedere uno spettacolo. Quello che è mancato più del teatro, durante questa lunga chiusura, è stato il rito ad esso collegato. Quando entri in un teatro è come se ti trovassi in una casa, in un luogo che ti protegge e che è sempre uguale, anche quando non ci sei mai stato: i camerini, il palcoscenico, il foyer, la platea, tutto uno spazio scandito da alcuni appuntamenti rituali – le prove, l’attesa del pubblico, l’inizio dello spettacolo, l’applauso finale – che quando improvvisamente viene a mancare ti disorienta. Io faccio sempre un esempio: se a scuola in un tema aprivo una parentesi ed era troppo lunga, l’insegnante segnava un errore. Le parentesi, infatti, devono essere brevi perché altrimenti le persone cominciano a leggere e poi si dimenticano di trovarsi all’interno di un altro discorso: con l’occhio occorre sempre guardare dove la parentesi si chiude. Analogamente il Covid è stato percepito come una parentesi aperta e ci aspettavamo che fosse presto chiusa, invece abbiamo scoperto che è diventata sempre più estesa. Alla fine ci siamo dimenticati che si trattava di una parentesi, questo è stato il vero problema.

Jannacci: L’assenza del teatro per me ha significato l’assenza di libertà, l’impossibilità di poter scegliere di farmi insegnare qualcosa. Se vai a teatro, impari sempre cose nuove: con questa presentazione di Manuale di sopravvivenza, per esempio, Stefano ci ha ricordato il significato della bellezza grazie a Dostoevskij. Si può vivere anche da soli, senza condividere le emozioni con gli altri e senza teatro, ma sicuramente accade che diventi più arido.

Da dove nasce l’ispirazione per una storia?

Massini: L’ispirazione nasce dal fatto che io sono onnivoro: ho sempre letto di tutto e la curiosità è uno dei più grandi insegnamenti che mi ha lasciato Luca Ronconi. Era uno con cui ragionavi di storia dell’arte, di economia, paradossalmente quasi parlavi meno di teatro con lui. Un altro elemento fondamentale è che le storie che racconto, almeno idealmente, credo che debbano sempre essere utili. Un tempo, all’interno dei racconti, esistevano dei brani chiamati apologhi, che venivano utilizzati per dimostrare sempre qualcosa: ecco, la struttura dell’apologo, con una sua utilità pratica, è a mio parere estremamente interessante. Fondamentalmente della cultura che fa mostra di se stessa, soltanto perché un argomento è bello da dire o da presentare, non mi importa niente.

Angela Consagra