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La vita del teatro: il cibo

30 marzo 2021

Nella sua Storia aneddotica dei teatri fiorentini, Julio Piccini, in arte Jarro, racconta con sagacia alcuni usi e costumi degli spettatori della Pergola ai primi del Novecento. «Nei vari palchi si cenava – scrive il frizzante critico volterrano – si spandevano per la sala gli effluvi delle vivande, si bevevano vini generosi, alcune sere lo scalpore era indescrivibile. Se qualche malcapitato si arrischiava a far osservazioni dalla platea andava a rischio di ricever un osso, qualche frammento di vivanda sulla persona, dagli allegrissimi commensali.»

L’abitudine degli spettatori, soprattutto quelli dei palchi, di consumare cibi e bevande durante gli spettacoli, era pratica diffusa in Europa già dal Settecento. I palchetti venivano considerati dai nobili che li prendevano in affitto come un prolungamento del salotto personale, per cui dentro ci si poteva fare un po’ di tutto: ricevere ospiti, conversare, giocare a carte, mettersi in mostra, sgranocchiare dolciumi e sorseggiare sorbetti.

Il legame cibo-teatro non riguarda solo le pratiche gastronomiche degli spettatori. Ha radici antiche: nasce con il mito. Prometeo ruba il fuoco a Zeus per donarlo agli uomini, fuoco con il quale questi imparano, tra le altre cose, a cuocere la carne. Dioniso invece, altro semidio ribelle, regala agli uomini il potere dell’immaginazione, dell’ebbrezza irrazionale che, attraverso una bevanda, il vino, può tutto osare. I capolavori dell’Antica Grecia, da Prometeo di Eschilo alle Baccanti di Euripide, pongono le fondamenta di una cultura che trova nel mangiare e nel bere un topos dell’intreccio fra le arti della cucina e quelle del teatro.

Théodore Chassériau, Macbeth vede lo spettro di Banquo, 1854, Musée des Beaux-Arts de Reims

Il primo a fare entrare la cultura alimentare a pieno titolo nella composizione drammatica, non soltanto da un punto di vista esornativo, è stato Shakespeare. Nell’atto terzo del Macbeth assistiamo a una delle scene più sconvolgenti del teatro elisabettiano: l’apparizione dello spettro di Banquo al banchetto dei coniugi diabolici congela il brindisi del generale scozzese. La cena diventa luogo di manifestazione del rimosso. Il calderone delle streghe richiama invece i riti sacrificali antichi oltre ad anticipare le teorie di Freud, con le pulsioni di piacere gastronomico che vanno a coincidere con l’istinto di morte. Ma è nella scena finale dell’Amleto, quando il re Claudio, Gertrude e i gentiluomini di corte si siedono intorno a una grande tavola imbandita per assistere alla cortese «partita d’armi» tra il Principe di Danimarca e Laerte, che si compie il binomio perfetto fra la festa e il suo esatto contrario, la morte.

Il finale del I atto di Miseria e nobiltà nell’edizione curata da Eduardo De Filippo nel 1953, in occasione del centenario della nascita di Scarpetta

Il teatro del cibo trova nelle farse di Antonio Petito e nella sceneggiata napoletana di Eduardo Scarpetta un’eccezionale terreno di vitalità espressiva. Miseria e nobiltà, rimane, in questo senso, un capolavoro inarrivabile di intrecci comico-sentimentali e gastronomici, tra l’esibizione di piatti fumanti e la descrizione di varie ricette. La cucina e la sala da pranzo prendono il posto del “salotto” come luogo privilegiato della conversazione teatrale. Pratiche culinarie diventano spesso un’allegoria manifesta dell’animato dialogo fra i personaggi, come in Sabato, domenica e lunedì di Eduardo quando, all’inizio della commedia, Donna Rosa insegna alla cameriera Virginia come si prepara il ragù. Il pranzo è destinato a diventare in scena una sofisticata “tecnica drammaturgica” che occupa l’intero arco della rappresentazione come in Metti, una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi, nel Lungo pranzo di Natale di Thornton Wilder, o A cena con le ombre di Giorgio Celli.

Peter Schumann offre il pane fatto da lui, tenuta del Bread and Puppet Theatre, Glover (Vermont)

Nel teatro del secondo Novecento il cibo diventa fattore di condivisione e di intimità con lo spettatore. Sempre più frequentemente gli attori invitano il pubblico a mangiare e bere tutti insieme, pratica che rafforza negli spettatori la consapevolezza di essere non solo un insieme di individui interessati all’evento scenico, ma una comunità. La più celebre esperienza in questo senso è quella degli statunitensi Bread and Puppet Theater. Il loro teatro è fatto di due elementi principali, marionette e pane, come recita il nome della compagnia. «Il nostro pane e il nostro teatro stanno bene insieme», dice Peter Schumann, fondatore e regista del gruppo, che alla fine di ogni performance distribuisce a tutti i partecipanti il pane ancora caldo, che egli stesso prepara.

Mangiare in scena è in fin dei conti un rito che, pur declinato in maniere diverse, non muore mai, anzi fa bene al teatro, è uno dei suoi ingredienti più elaborati e richiesti, ma anche molto delicato da usare. Non è forse «il pranzo è servito» la battuta più difficile da pronunciare per un attore?

Adela Gjata