Il Teatro al centro della società. Intervista a Monica Guerritore
28 novembre 2020
Un suo pensiero su questo momento di forzata chiusura teatrale. Che cosa significa per lei?
Le impressioni e le sensazioni legate a questo periodo così complicato si sono susseguite via via, una dietro l’altra: prima incredulità, poi paura… Durante il primo lockdown di marzo ed aprile, pur nell’angoscia e nelle difficoltà, abbiamo pensato che tutto potesse essere, in qualche modo, recuperato; invece, con questa seconda ondata ci siamo resi conto, forse per la prima volta, che la fase della chiusura non era solo qualcosa di momentaneo: pensavamo di vincere subito, come siamo abituati a fare di solito, perché grazie alla tecnica siamo diventati quasi degli dèi e praticamente niente ci fa più paura. Al contrario, la recrudescenza del virus in questa seconda ondata e la nostra scarsa conoscenza al riguardo ci hanno ricordato la fragilità dell’essere umano. In me, ma credo in tutti, si è messo allora in moto un altro sentimento: tentiamo di assorbire questo momento, senza contrastarlo e facendo anzi in modo che possa essere il segno di un grande rinnovamento, di una rigenerazione profonda. La metamorfosi, il tempo della trasformazione: sono dei processi che necessitano di un lungo periodo per realizzarsi. Platone diceva che, per vivere il cambiamento, bisogna “attraversare la valle della dimenticanza e bere l’acqua della noncuranza”. Occorre allontanarsi da quello che si era prima: c’è chi vive questo processo con più facilità e chi fatica a distaccarsene, ma siamo tutti coinvolti. Il mondo è cambiato, il mondo è uscito dai suoi cardini: è l’ora di rimetterlo in sesto. Tante cose erano moribonde e avevano perso vitalità, anche nel teatro: la pandemia si è portata via tutto. Dobbiamo metterci in gioco e ricentrarci, dando importanza alla funzione formativa del nostro lavoro per riuscire a creare e fare spazio a una nuova consapevolezza, una nuova forma di racconto teatrale. Soprattutto è arrivato il momento di mettere il teatro al centro della società, e non relegarlo ai margini della formazione dell’essere umano.
In questo periodo ognuno esprime le idee più eterogenee come, per esempio, quella di utilizzare i teatri e le sale cinematografiche per la campagna vaccini…
La considero una stupidaggine! Quando non si sa bene dove mettere le cose, si pensa di utilizzare i teatri: non abbiamo posto per ricoverare, per esempio, le pompe dei pompieri? Andiamo nei teatri, che hanno spazi ampi e non servono a niente… La trovo un’idea balzana e pericolosissima, perché il teatro è invece un luogo raccolto, buio, con corridoi stretti, pieno di scalette e trabocchetti, situato spesso nei centri storici: sono spazi delicati, inadatti ad ospitare la campagna vaccini. Si ha come l’impressione che del teatro si possa fare a meno ancora per molto, ma noi e il pubblico aspettiamo da marzo di potere ritornare alla poesia e alla bellezza della narrazione. C’è una grande necessità di capire e di leggere dentro di sé, attraverso la rappresentazione della favola, ciò che accade intorno a noi. Quelle ombre che vivono all’interno di noi stessi e che ci inquietano, poi le vedi rappresentate, vive e reali, su un palcoscenico: a quel punto diventi più calmo, perché con l’ascolto di ogni nuova storia acquisti consapevolezza. È molto importante scegliere i testi da rappresentare, proprio per capire i bisogni del pubblico: non si tratta di una cronaca della pandemia, piuttosto del racconto dei sentimenti che ci ha lasciato. Per il futuro dobbiamo mirare ad una scrittura per la scena, sia contemporanea che classica, di altissimo livello.
Anche il personaggio di Amleto, lei stessa l’ha ripetuto più volte, vive in un mondo che è andato fuori dai cardini…
“Maledetto destino, doverlo rimettere in sesto”: a partire da queste parole di Skakespeare, io leggo proprio così il mondo che viviamo oggi. Amleto si muoveva in una realtà connotata da una terribile peste, infatti viveva immerso nell’incertezza dell’essere. È in questa chiave metaforica che possiamo rileggere il personaggio di Amleto: uno specchio delle dinamiche più profonde che muovono la nostra società.
Cosa le manca di più del palcoscenico?
La fine dello spettacolo, quando dal palcoscenico scendo in mezzo al pubblico. Per me non esiste la quarta parete: il teatro è un’esperienza collettiva e io vado a prendere proprio fisicamente l’abbraccio degli spettatori. Lo spettacolo si è appena concluso, sono stanca e sudata, ma avverto l’emozione che ha permeato tutto: pubblico, platea e palcoscenico.
Angela Consagra