Battiamoci come leoni per la bellezza. Intervista a Davide Livermore
15 marzo 2021
Lei è stato nominato Direttore del Teatro Nazionale di Genova alla fine del 2019, solo pochi mesi prima dello scoppio della pandemia in Italia…
È stato un anno davvero intenso, sotto tutti i punti di vista. Nei momenti più terribili credo che si debba tirare fuori il coraggio, la voglia di osare e sperimentare. Quando accadono fatti di una tale portata – come la diffusione di una pandemia a livello globale – è importante riuscire a trasformare la crisi che ci ritroviamo a vivere in una grandissima chance. La parola crisi mantiene in sé, sempre, una connotazione positiva: ogni limite, per un artista, è anche un’opportunità. Il teatro vive un’occasione straordinaria, perché finalmente può essere riconosciuto e difeso come uno dei beni assoluti di questa nazione. Mai, dal Dopoguerra, abbiamo assistito ad un momento così decisivo: stiamo vivendo una fase che, in mezzo alle innumerevoli difficoltà, è in grado di indirizzare e farci riflettere veramente sul ruolo e l’importanza della cultura. È da anni che veniamo sbrigativamente bollati con espressioni tipo: “con l’arte non si mangia”, quando invece l’indotto creato dalle attività culturali – lo raccontano prestigiosi studi universitari di economia – è capace di far guadagnare 6 euro per ogni euro investito sullo stesso territorio. È il momento storico in cui l’Italia può riconoscere la cultura per quello che è: una delle prime aziende, anche economiche, del nostro Paese. Come artisti e lavoratori teatrali viviamo con la maledizione, o benedizione, di aver scelto di fare questo mestiere e, inoltre, abbiamo un grandissimo desiderio di esserci, di affermare la nostra presenza.
La spaventa di più il Covid o, piuttosto, la non-considerazione della cultura come un bene primario?
La pandemia è qualcosa che arriveremo a risolvere, mentre sulla cultura noi fondiamo il nostro Paese e la nostra identità, proprio come popolo. Avere paura che il valore della cultura non venga riconosciuto… Non so, ma resto comunque fiducioso: se dopo più di vent’anni di mediocri programmi televisivi e di televendite ci sono milioni di persone che vedono la prima della Scala in TV, di cui ho curato la regia – più di tre ore consecutive di spettacolo: una sorta di trasformazione televisiva di un galà dell’opera, sinonimo di bellezza, poesia, parole e musiche straordinarie – significa che c’è cultura nelle persone, un desiderio di teatro che spesso non viene raccontato. Per anni abbiamo avuto molti più abbonati all’opera e alla prosa rispetto alla serie A, che improvvisamente era diventata nello scorso mese di aprile la massima priorità di questa nazione. Sono ottimista per il futuro: in risposta alla crisi vedremo la creazione di opere e avremo voglia di raccontare il nostro tempo. Tecniche e conoscenze per creare nuovi stili, nuove modalità di rappresentazione, non ci mancano; io non ho dubbi: la bellezza è come l’acqua, filtra anche quando trova degli ostacoli, e riesce sempre ad arrivare in superficie.
Quali sono le maggiori difficoltà tecniche, proprio sotto il profilo più pratico, per allestire uno spettacolo al tempo della pandemia?
Le problematiche che stiamo incontrando sono quelle legate a un tempo estremamente difficile. Ultimamente abbiamo allestito al Teatro del Maggio il Rigoletto, con la direzione musicale di Riccardo Frizza e la mia regia: la recita che era prevista il 23 febbraio è stata registrata e verrà poi trasmessa in streaming. Per questa regia sono partito dal libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma di Victor Hugo e da Giuseppe Verdi: sono figure potenti e geniali, che ci hanno lasciato un’eredità unica e irripetibile. Unire insieme sul palcoscenico la lezione di questi personaggi è un grandissimo gioco, ma già all’epoca di Verdi si affrontavano parecchie difficoltà per mettere in scena un’opera: c’erano le guerre e delle censure feroci, ma ciò non ha impedito che venissero creati dei capolavori. È anche per questi motivi che oggi abbiamo la responsabilità di bypassare il presente e superare, in qualche modo, le difficoltà in cui ci troviamo. Non ci possiamo toccare o parlare guardandoci in faccia, non possiamo muovere in scena le masse corali, però abbiamo l’arte. Se fosse tutto facile, cosa ci staremmo a fare noi artisti? Il compito di un artista è proprio quello di gestire una crisi.
Per descrivere la sua personale concezione teatrale, che è alla base del progetto del Teatro Nazionale di Genova, utilizza dei termini molto importanti e profondi: “raccontare la contemporaneità, trasmettere la memoria, creare comunità, praticare la bellezza”. È su queste parole che si basa il futuro?
Il futuro si realizza partendo dalla visione del passato, e soltanto così è possibile creare la nostra identità attuale. Nella legge di causa ed effetto che regola l’universo, le nostre anime e i nostri destini, è tutto quello che ci arriva dal passato e che viviamo nel presente, a risuonare nel futuro. E personalmente credo che un artista debba battersi come un leone per far vivere la bellezza: per essere uomini di questo tempo, per capire il presente, occorre studiare profondamente il passato. Un artista deve dedicare tutta la sua vita per conoscere ciò che è stato: soltanto così, attraverso la propria sensibilità, potrà creare il futuro.
Che cosa le manca di più dello spettacolo dal vivo?
Il valore di celebrazione di una società. Il teatro, nel corso della sua lunghissima storia, ha sempre mantenuto una funzione fondamentale: ricordarci il senso di appartenenza ad una comunità. Andare a teatro non significa far parte di un’élite, anzi è con il teatro che emerge quell’anima capace di unirci tutti. Già l’agorà ottocentesca, per esempio, creata intorno a un teatro dell’opera verdiana, ribadiva quanto fosse importante ragionare insieme su dei temi comuni per creare i nuovi italiani… Ecco, forse quello che mi manca di più in assoluto del teatro dal vivo è proprio il fatto di ‘sentirmi comunità con gli altri’.
Angela Consagra